Page 3 - Django's Waltz
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Serata “Django”




                        Testo di Giacomo Aime, con la collaborazione di Paolo Barile.


                               Per me, non è possibile non parlare della vita di un musicista se si vuole
                        comprendere fino in fondo la sua musica, la sua essenza artistica. Questo
                        perché  la  musica  “son  fatti  di  vita“,  è  il  prodotto  di  esperienze,  vissuti,
                        incontri, caratteri, allucinazioni, sogni, speranze, sofferenze, condivisioni.
                        L’esempio  di  Django  Reinhardt fa  capire  quanto  il  talento  assoluto,
                        l’ostinazione, il destino – per chi ci crede – chiamino all’appello dei grandi
                        della musica un ragazzo, nato in una carovana nel gennaio del 1910, da
                        una famiglia di etnia sinti.
                               Dopo un lungo girovagare in varie nazioni europee, la sua carovana si
                        fermò presso la periferia di Parigi, città che fu scenario quasi della sua intera
                        carriera. Una notte, la roulotte di famiglia fu divorata da un incendio; Django
                        riportò gravi ustioni, tanto da perdere l’uso della gamba destra e di parte
                        della mano sinistra. Ancora giovanissimo, rifiutò fermamente l’amputazione
                        di mano sinistra e piede destro e, superando fortunosamente il rischio di
                        cancrena che gli si prospettava, passò la lunga convalescenza a letto ad
                        inventare una tecnica che gli consentisse di suonare la chitarra con l’uso di
                        sole due dita della mano sinistra (indice e medio). L’anulare ed il mignolo,
                        distrutti  dal  fuoco,  furono  saldati  insieme  dalla  cicatrizzazione.
                        Come Stéphane Grappelli raccontò in seguito, Django impiegò degli anni
                        per imparare a portare sopra la tastiera anulare e mignolo, semi-atrofizzati,
                        per integrare le parti ritmiche sulle prime due corde. Questa limitazione può
                        essere però considerata un prodigio, se si pensa che la sua mano si salvò
                        grazie ad un’operazione chirurgica disperata, con l’anestesia al cloroformio
                        ed una rieducazione autoimposta durante la convalescenza ospedaliera di
                        diciotto mesi: la mano sinistra è per un chitarrista non mancino la mano con
                        la   quale    muove      gli   accordi    sulla    tastiera   della   chitarra!
                               Questo incidente fu destinato a cambiare la storia stessa della chitarra
                        jazz. Nonostante  le  dita  atrofizzate,  o  forse proprio  grazie  a  queste,  egli
                        sviluppò    una    tecnica    chitarristica   rivoluzionaria   e    del   tutto
                        particolare.   A metà  degli  anni  ’30,  dall’incontro  tra  il violinista Stéphane
                        Grappelli e Django Reinhardt nasce un quintetto di soli strumenti a corda,
                        denominato Le  Quintette  du  Hot  Club  de  France che  s’impone  a  livello
                        internazionale  come  il  primo  importante  gruppo  jazz  non  americano.
                        Sull’onda di questo successo, Reinhardt si rivelò come uno dei musicisti
                        europei  più  talentuosi  nel  jazz  tradizionale.  La  musica  di  Reinhardt  era
                        eccitante, carica ora di tensione, ora di leggerezza, quasi eterea e si aveva
                        come  l’impressione  che  egli,  nell’improvvisazione,  suonasse  come  se
                        avesse  lo  spartito  davanti.  Utilizzava  una  forma  particolare  di  ritmo
                        percussivo “la  pompe” (la  pompa) che  dà  alla  musica  la  sensazione  di
                        oscillazione rapida. Subito dopo la seconda guerra mondiale, venne invitato
                        negli Stati Uniti da Duke Ellington, che lo presentò come ospite in alcuni
                        concerti, l’ultimo dei quali alla Carnegie Hall di New York.
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